La legge cosiddetta legge anti-dpcm di Manfrin/Lavevaz, già sospesa dalla Corte costituzionale, è stata definitivamente dichiarata incostituzionale. In attesa delle motivazioni, il comunicato stampa della Corte è chiarissimo: “spetta allo Stato, non alle regioni, determinare le misure necessarie al contrasto della pandemia”.
Già, perché questo era il problema, il trucco sotteso alla nostra legge: far credere che le misure di gestione delle attività economiche, inevitabilmente connesse a quelle di contrasto della pandemia, potessero invece derogarvi, in nome dell’autonomia. L’autonomia non è un gioco, non è una prova di forza, non è prestidigitazione politica.
Secondo la Consulta, infatti, “il legislatore regionale, anche se dotato di autonomia speciale, non può invadere con una sua propria disciplina una materia avente ad oggetto la pandemia da Covid-19, diffusa a livello globale e perciò affidata interamente alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, a titolo di profilassi internazionale…”. Tradotto: darsi regole da sé, soprattutto in materie così delicate, significa conoscere i limiti entro i quali ci si deve muovere, e quei limiti sono innanzitutto quelli scritti nella Costituzione.
Non stupisce che un Manfrin non li conosca. Stupisce che un Presidente/Prefetto e tutta un’intera macchina organizzativa decidano di prescinderne, di sfidarle apertamente pur di solleticare la pancia, di cavalcare il disagio, di chiamare a raccolta i valdostani contro lo Stato centrale.
Perché questo è stata la legge regionale anti dpcm. Una squallida operazione politico/istituzionale, tanto infantile, tanto populista, quando inefficace e controtoducente. Si poteva lavorare a serie misure economiche, si poteva dialogare con lo Stato per concordare indennizzi (non ristori!). Si è preferito giocare a fare i ribelli, sventolare bandiere identitarie, correndo il rischio di mettere ancor più seriamente in pericolo la salute pubblica. La Corte lo ha impedito. Era inevitabile, ma si poteva evitare.