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Legge regionale anti DPCM: una legge inutile e pericolosa. Un’analisi approfondita.

Nella giornata della pubblicazione della cosiddetta legge regionale anti DPCM, ribadiamo che la valutazione del provvedimento non può che essere negativa.

Sul piano della tecnica legislativa, si tratta di un testo oggettivamente confuso, con diversi errori evidenti, alcuni ricopiati direttamente dalla legge Altoatesina, rispetto alla quale, però, sono state stralciate parti fondamentali. Tenuto conto delle disponibilità finanziarie della Regione Autonoma, dei buoni rapporti che la stessa intrattiene con diversi giuristi di chiara fama, del fatto che si tratta di una copiatura di una legge precedente, già esaminata dalla dottrina, e della probabile reazione dello Stato centrale, ci si sarebbe aspettato uno sforzo intellettuale maggiore nella redazione del provvedimento.

Sul piano dei contenuti, la norma risulta avere una scarsa utilità, salvo esporre la Regione e i suoi amministratori a responsabilità significative sul piano penale, civile e contabile, in caso di una recrudescenza dei contagi per l’elusione della normativa statuale. Da notare, in proposito, che la scelta dello strumento legislativo, rispetto a quello forse più consono dell’ordinanza, ha come conseguenza una responsabilità in solido dei consiglieri votanti, anziché del singolo Presidente.

Sicuramente è uno degli episodi più importanti del conflitto che da secoli oppone potere centrale e potere locale valdostano e ha avuto, almeno sul breve periodo, una ricaduta positiva, per l’attore periferico, sul piano dell’immaginario identitario.

La scelta di privilegiare il profitto, anziché la salute pubblica, segna però una cesura importante rispetto ad una tradizione autonomista che, almeno in teoria, ha come scopo dichiarato una maggiore efficacia rispetto alla tutela dei diritti – tra cui, primo fra tutti, il diritto alla salute e alla vita – dei membri della comunità valdostana.

Qui di seguito, riportiamo la nostra analisi nel dettaglio della legge regionale “Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2.

In questa sintetica analisi, abbiamo confrontato il provvedimento con il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19) – fondamento del DPCM del 03/12/20 – e con la legge della Provincia di Bolzano 8 maggio 2020, n. 4 (Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nella fase di ripresa delle attività).

Rispetto all’uso della mascherina, la RAVA copia la norma del Sudtirolo. Da evidenziare, però, che tale norma nasce in un contesto diverso, in cui si avviava la cosiddetta fase 2 e non era in corso la seconda ondata.

Questa discrasia si rileva fin dal titolo dei due provvedimenti: quello valdostano fa riferimento a “Misure di contenimento (…) in relazione allo stato di emergenza”, mentre quello della Provincia di Bolzano si riferisce, invece, a “Misure urgenti (…) nella fase di ripresa delle attività”.

L’interpretazione letterale della norma locale non prevede l’uso dei DPI negli spazi chiusi e prevede un esonero generico anche per situazioni psicologiche di intolleranza alla mascherina. L’art. 2 comma 4 della legge valdostana risulta, quindi, meno stringente del DPCM, adottata invece nel pieno della seconda ondata, che prevede all’art. 1 l’obbligo sull’intero territorio nazionale di indossare le mascherine anche nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private. Per le esenzioni, la norma statale è più chiara e si presta meno a interpretazioni lassiste: la mascherina può essere evitata per i soggetti con patologie o disabilità incompatibili con l’uso della mascherina, nonché per coloro che per interagire con i predetti versino nella stessa incompatibilità. Un conto è una patologia o disabilità – che si può quindi certificare – e un conto è una soggettiva intolleranza psicologica.

Rispetto alla caccia, come per altre materie disciplinate dalla legge regionale in esame, è opportuno comprendere quello che è già consentito dalla norma statale, in ragione della classificazione arancione della Regione. La caccia, intesa come attività sportiva, potrebbe ripartire subito, senza bisogno della legge regionale, data la classificazione di zona arancione. Dovrà svolgersi, però, solo nel comune di residenza. Intesa, invece, come servizio pubblico (abbattimento di cinghiali e similari) subisce meno limitazioni. Nel caso in cui si volesse far ripartire tutta l’attività venatoria senza limitazioni – in particolare, la possibilità di spostarsi in comuni diversi da quello di residenza, come se si fosse già in zona gialla – la legge regionale sarebbe da considerarsi in evidente contrasto con la norma statuale.

Il vero nodo della norma regionale è il rapporto tra il comma 10 dell’art. 2 e i commi 11, 12, 13, 14, 15, 16 del medesimo articolo. La lettera della norma è chiara: “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge” tutte le attività economiche indicate nei commi seguenti “possono svolgere regolare attività” a condizione che rispettino appunto il comma 10. Non serve nessun successivo provvedimento applicativo. Anzi, un successivo provvedimento del Presidente della Regione sarebbe necessario solo nel caso in cui si decidesse per una limitazione dell’esercizio di un’attività.

Da sottolineare che anche il comma 10 è immediatamente applicabile, come dichiarato all’inizio dell’ultimo capoverso: “Trovano applicazione i protocolli di sicurezza vigenti”. Dato che solo per le attività di cui al comma 17 si fa riferimento esplicito anche ai protocolli nazionali, si ritiene che i protocolli a cui fa riferimento invece il comma 10 siano unicamente quelli regionali.

Questi protocolli, in effetti, sono già stati approvati dalla Giunta regionale con proprie delibere, ma fanno riferimento alla disciplina della fase 2 e non all’attuale quadro di ripresa della pandemia, regolato dallo Stato con il sistema delle zone a colorazione differente.

Quando ha adottato la propria legge, la Provincia di Bozen ha contemporaneamente approvato in allegato i corrispondenti protocolli d’azione, adeguati alla situazione epidemiologica del tempo.
La Regione Valle d’Aosta non ha predisposto dei nuovi protocolli per fare fronte ad una situazione da zona arancione, semmai si comporta come se fosse già in zona gialla.

È indiscusso che la “colorazione” delle zone non dipenda dalla Regione, ma dallo Stato, che applica i criteri individuati con Decreto del Ministero della Salute.

Sembrerebbe quindi evidente l’eccesso di potere e l’irragionevolezza della scelta regionale di consentire alcune attività senza considerare la colorazione statale.

Secondo il quadro descritto, il primo giorno di efficacia della legge, salvo un contestuale intervento in senso contrario del Presidente, i ristoranti e i bar potranno aprire al pubblico, senza subire nemmeno limitazioni di orario: una regolamentazione ancora più soft della zona gialla.

Le attività commerciali al dettaglio e le attività inerenti ai servizi alla persona e agli altri settori dei servizi risulteranno, invece, già aperte non in forza della legge, ma per il mero fatto di essere diventati zona arancione.

La legge regionale, in evidente contrasto con la disciplina del Governo centrale, consentirebbe invece la riapertura di attività artistiche e culturali, compresi i musei, le biblioteche e i centri giovanili, strutture ricettive e attività turistiche, oltre agli impianti a fune ad uso sportivo o turistico-ricreativo.
Rispetto agli impianti a fune, la situazione sarebbe ancora più paradossale dato che, sempre per la lettera della norma, l’attività sarebbe regolata dai protocolli regionali vigenti e non dai protocolli nazionali in corso di verifica da parte del CTS e che dovranno essere approvati con DPCM.

Il comma 19, relativo agli esami di idoneità di cui all’articolo 121 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), risulta poco chiaro rispetto agli obiettivi perseguiti. Con l’espressione: “si svolgono nel rispetto delle distanze di sicurezza interpersonali di almeno un metro e previa copertura di naso e bocca” si intende ribadire una misura già vigente – tenuto anche conto delle competenze regionali attribuite dal decreto legislativo 13/2008? – o si intende dire che che gli esami si svolgono anche se fossimo in zona rossa, tenuto conto che la sospensione degli esami valeva sono fino alla zona arancione?

Il comma 21, relativo al potere di ordinanza sindacale, va letto, per garantire la sua legittimità, come una mera ripetizione dell’art. 3 comma 2 D.L. n. 6/2020 ovvero: le ordinanze sindacali sono possibili, per una disciplina residuale e sempre nel rispetto delle misure statali e regionali, solo per materie di competenza comunale.

In ragione del quadro di incertezza delle fonti creato dalla nuova legge regionale, i sindaci potrebbero trovarsi in difficoltà in merito alla necessità di essere anche coerenti con il quadro delineato da DPCM e ordinanze del Ministero della Salute.

Da ricordare che un eventuale intervento repressivo nei confronti di un’ordinanza sindacale in conflitto con la normativa statale sarebbe in capo proprio al Presidente/ Prefetto.

Uno degli aspetti più critici della norma regionale è il fondamento del sistema sanzionatorio. Il comma 23 prevede, infatti, che il mancato rispetto delle misure di cui alla presente legge è sanzionato secondo quanto previsto dall’articolo 4 del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19 (Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19).

Al di là della contraddizione di un potere che, nel rivendicare una propria supposta autonomia/ indipendenza, è costretto a riconoscere come fonte del potere sanzionatorio la fonte statuale, si evidenzia che l’art. 4 prevede le sanzioni solo per le misure di contenimento di cui all’art. 1 comma 2, individuate con un provvedimento adottato con un determinato procedimento, ossia ai sensi art. 2 comma 1 e art. 3. I provvedimenti in questione sono appunto i DPCM, adottati sentiti vari enti, tra cui i Presidenti di Regione, ma soprattutto, per i profili tecnico-scientifici e le valutazioni di adeguatezza e proporzionalità, sentito il Comitato tecnico scientifico di cui all’ordinanza del Capo del dipartimento della Protezione civile 3 febbraio 2020, n. 630.

L’unica altra possibilità è quella prevista dall’art. 3, ossia ordinanze regionali adottate nelle more e per misure ulteriormente restrittive.

È quindi dubbio che il provvedimento regionale, non trattandosi di ordinanza e, soprattutto, non intervenendo nelle more e per assumere provvedimenti restrittivi, possa godere della copertura dell’art. 4 per l’applicazione delle sanzioni.

Da evidenziare, sempre sul piano del sistema sanzionatorio, il paradosso della situazione in cui, ai sensi del comma 9 dell’art. 4, è il il Presidente/ Prefetto che dovrebbe assicurare l’esecuzione delle misure statali. Nel caso in cui si decidesse l’applicazione della legge regionale – in palese contrasto con la zonizzazione arancione – cosa farà Lavevaz in qualità di Prefetto? Ometterà di far rispettare la legge dello Stato?

Il comma 24 dell’art. 4 – la sospensione delle attività di cui ai commi da 11 a 19 disposta, in caso di necessità inerenti all’andamento dell’emergenza sanitaria, dal Presidente della Regione – è lo strumento con cui la Regione può rimediare al pasticcio creato dalla sua stessa legge, ossia prevedere ordinanze che riconducano lo svolgimento delle attività al quadro definito dai provvedimenti statali.

Al provvedimento valdostano, copiato in gran parte da quello sudtirolese, manca però una parte fondamentale: la commissione tecnica che consente al Presidente della Regione di monitorare la situazione e modificare la regolamentazione delle attività, sulla base dell’andamento dell’epidemia. L’Unità di supporto e coordinamento per l’emergenza COVID-19 di cui all’art. 3 della legge valdostana è oggettivamente diversa dalla Expertenkommission del Sudtirolo. Quest’ultima è una commissione, composta da almeno cinque membri di riconosciuta esperienza nei rispettivi ambiti di competenza, tra cui l’epidemiologia, la virologia, la statistica nonché l’igiene e sanità pubblica, che “effettua il monitoraggio costante dell’andamento della curva del contagio da virus SARS-COV-2 e propone al Presidente della Provincia, in caso di ripresa del numero dei contagi, ovvero nel caso in cui si evidenzi una linea di tendenza che spinga verso il potenziale rischio di raggiungimento dei limiti di capacità del sistema di prevenzione e cura, l’adozione di idonei provvedimenti, inclusa la sospensione delle attività (…) anche limitatamente ad aree circoscritte all’interno del territorio provinciale”.

Infine, la legge regionale, nella sua interpretazione più radicale, pare in antitesi con il concetto di concorrenza di competenza Stato/Regione Autonoma in materia di sanità pubblica (art. 32 e art. 117 Costituzione) e pone in discussione i vincoli di leale collaborazione fra l’Autonomia e lo Stato. Il potere centrale dovrebbe definire gli indirizzi e il quadro, la Regione dovrebbe declinarlo e non stravolgerlo. Da parte sua, lo Stato ha rispettato sia il principio di precauzione (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 3 ottobre 2019, n. 6655 «ogni qual volta non siano conosciuti con certezza i rischi indotti da un’attività potenzialmente pericolosa, l’azione dei pubblici poteri» deve «tradursi in una prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche), sia il principio di leale collaborazione, dato che l’art. 2 del d.l. n. 19/2020 prevede il parere dei Presidenti delle regioni interessate dal provvedimento o del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome nel caso in cui sia coinvolto l’intero territorio nazionale. Al contrario, la legge regionale è stata emanata al di fuori di qualsivoglia forma di intesa o consultazione nei confronti del Governo e quindi manca del coordinamento tra i due livelli amministrativi indispensabile, in base al principio di leale collaborazione che, per tale ragione, parrebbe violato (cfr. TAR Calabria, sent. n. 841 del 9 maggio 2020).

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