L’aula della Camera ha appena respinto, dopo il parere contrario del Governo, l’ordine del giorno presentato sulla c.d. patrimoniale, proposta di Nicola Fratoianni e Matteo Orfini. La destra ovviamente approva convinta la scelta del Governo rilanciando tutte le sciocchezze sulla “rapina al ceto medio”.
Non siamo qui a salmodiare la giustezza, e la giustizia, di un provvedimento che, peraltro, poteva rappresentare solo un accenno, l’apertura di una via da percorrere in un’ottica redistributiva della ricchezza.
Ma una visione di mondo migliore vogliamo continuare ad averla, sempre liberi da un pensiero dicotomico, in base al quale tenderemmo a pensare tutto bianco o tutto nero, non solo anacronistico ma anche velleitario nella postmodernità e nella società liquida.
Oggi il mondo sta vivendo una terribile pandemia, ma la vera malattia è una – non incolpevole – febbre che si chiama “sindemia”. Il termine è stato usato dalla rivista scientifica inglese The Lancet per rappresentare l’insieme delle cause e degli effetti di questa catastrofe sanitaria, sociale ed economica. Se in una pandemia il contagio colpisce in modo indistinto tutte le persone e si manifesta con uguale pericolosità, in una sindemia il contagio colpisce in modo grave soprattutto le persone che presentano certe patologie e versano in precarie condizioni socioeconomiche.
Ed è quello che sta avvenendo con Covid-19.
La comprensione delle interazioni che si sono stabilite tra coronavirus, situazione ambientale, condizione socioeconomica, patologie pregresse, deve consentire un approccio nuovo e più ampio per definire la «crisi di salute» che stiamo vivendo.
Non solo il fatto infettivo, ma il contesto in cui esso si manifesta, e soprattutto il fatto che si manifesta in misura maggiore nelle comunità più svantaggiate da un punto di vista sociale ed economico, nelle minoranze etniche, nella popolazione femminile. La povertà è il primo dei fattori aggravanti.
Nel 2020 la disuguaglianza tra ricchi e poveri è aumentata sensibilmente. I primi, possessori della quasi totalità degli asset finanziari, favoriti dalle spinte all’economia e ai mercati di governi e banche centrali, i secondi alle prese con un incremento della disoccupazione che falcidia i redditi da lavoro.
Abbiamo un bisogno disperato di un modello di salute che si concentri sul complesso biosociale.
Addirittura il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha dichiarato che il mondo ha bisogno di un New Deal globale “in cui potere, risorse e opportunità siano meglio condivisi ai tavoli decisionali internazionali” e in cui “i meccanismi di governance riflettano meglio le realtà di oggi”.
Sono passati più 20 anni da quando è iniziata la battaglia contro la cattiva globalizzazione, e più o meno altrettanti da quando è uscito il saggio One World – L’etica della globalizzazione di Peter Singer, discusso e autorevole filosofo australiano. Provocatorio allora come oggi, attraverso il prisma della morale, si scagliava contro i potenti che strumentalizzano la globalizzazione e avanzava alcune proposte: un maggiore impegno individuale e collettivo nella lotta contro la povertà, per una riforma delle istituzioni internazionali, una stretta cooperazione regionale, la difesa dell’ambiente. Per mettere in pratica queste proposte è utile e necessario considerare che, vivendo in un unico mondo sempre più interconnesso, le regole devono essere improntate a un’etica globale. Se non possiamo far altro nell’immediato, proviamo a cominciare da lì, rimane fra le poche attività umane non monetizzate.